Si vive e si nuota in un limbo dell’oscura concretezza porta verso l’inconoscibile dell’immateriale. Il corpo muta adattandosi al nuovo sentire elettronico dei mezzi comunicativi. Si comunica attraverso un linguaggio frammentato e sincopato che esprime le difficoltà del vivere e del capirsi. L’arte di DAG si trova in mezzo al fiume. Egli è alla disperata ricerca di espressioni che significhino qualcosa, che rendano il ruolo dell’artista meno elitario e più funzionale al caos che è intorno a noi. La sua matericità frammentata attraverso l’estetica, produce e veicola idee,i concetti, funzionando da interfacce dell’ intelligenza collettiva. Egli usa, per questo, nuove strutture formali, nuove soluzioni; si invertono i parametri della struttura dell’opera, laddove l’opera ipermaterica finisce per somigliare ad un quadro informale ed il dipinto ricorda una scultura tirata via in fretta. Conta aprire la mente, essere permeabili ad una immagine funzionale a quella componente del fantastico che esiste dentro di noi. Libera dai rigidi schematismi, l’arte di De Angelis, anche se la struttura formale sembra suggerire il contrario, affronta la scommessa del linguaggio immateriale del prossimo millennio mettendo in discussione tutto; dalla sua essenza concettuale alle forme, al modo di relazionarsi con il soggetto. Ecco, qui sta, probabilmente, la vera sfida di questo
periodo così mutevole: recuperare la dialettica del comunicare, per far si che il transfert non sia più a senso unico ma viva in entrambi i lati del rapporto artistico. Perché, in fondo, essa non serve agli artisti, ai collezionisti o ai critici, essa è necessaria per la gente, per tutti coloro che accettano la continua riparametrazione di se stessi. In fondo il messaggio di tanti artisti risiede, proprio, nella massima esemplificazione della struttura formale dell’arte, perché si è, sempre e comunque, nell’atto creativo detonatori di un accadere. In un mondo di eccesso, di troppo pieno nulla è più rivoluzionario del vuoto. Giuseppe De Angelis concede allo spettatore la libertà di elaborare da sé gli spazi vuoti dell’opera che è, allora, la vera essenza di un’arte che vive, si muove e nuota nell’intero corpo sociale. Perché avere senso nel rapporto con gli altri significa averlo anche con noi stessi. L’uso di scarti matrici, legatiai linguaggi e all’uso quotidiano, ha la logica del provocare in chi vede l’insana voglia di esprimere, in qualsiasi modo, la propria creatività soggettiva; l’arma che ognuno può usare per combattere la propria battaglia verso l’ossessione dell’immagine mediologia.
MASSIMO SGROI
Direttore Artistico Assessorato all’Arte e alla Cultura del Comune di Caserta