Recensione
Dag elabora delle composizioni polimateriche che tengono conto di oggetti residuali destinati all’oblio.
In effetti , l’artista casertano riprende,in modo autonomo, quella cultura del rifiuto, nella sua doppia accezione, cioè come manufatti usurati e nel senso di opposizione dell’attuale sistema degli oggetti , che ha caratterizzato tutto il ‘900, a partire dall’objet trouvè dada-surrealista,fino all’esperienza della “junk-art” e il “nouveau realismè”. In particolare, ci sono rimandi all’opera di Louise Nevelson , autrice di assemblaggi lignei di grande espressività, ai “Plurimi” di Emilio Vedova, saturi di quella materia informale-esistenziale che sconfina nel lirismo puro,al “Marzbau” di Kurt Schwitters, un glossario di oggetti fuori uso che riscrive una nuova forma della comunicazione, lontana dalla mercificazione del linguaggio.
Dag utilizza materiali come : tessuti, legno, chiodi, lamiere, colori e quant’altro serva a ridefinire strutturalmente un codice espressivo dall’impianto ecologista e fortemente critico verso il consumismo. Noi siamo immersi in un mare di oggetti, molti dei quali assolutamente superflui.
I nostri bisogni sono in gran parte indotti e tale fenomenologia si riflette sul nostro modus vivendi ,influenzando anche le modalità comunicative che usiamo abitualmente. La percezione del mondo manca di filtri, di apparati critici che permettano una giusta collocazione dei fenomeni, una loro interpretazione estensiva che possa evolvere il materiale sensibile introiettato in significati funzionali alla comprensione dei meccanismi sociali che condizionano la vita. L’autore riflette nelle sue opere questo “genocidio culturale” di pasoliniana memoria, proponendo in maniera esplicita la
disarmonia profonda che ristagna in quasi
.
tutte le nostre espressioni comportamentali. Sono, appunto, le “armonie spezzate”, cioè fratte, mutilate, che pongono sempre nuove distanze fra le persone.
Non manca però il ricorso all’utopia,tipico dell’artista che intravede una possibilità di linguaggio laddove il flusso delle informazioni entra in corto circuito.
E’ una lingua gergale, autoctona, nata dalla contingenza, senza espressioni metafisiche, che scopre la propria mitologia lessicale nei contatti occasionali tra segmenti di discorso relegati nella marginalità, al di qua della piatta monotonia del linguaggio ufficiale,figlio della ragione dominante più vicino all’incubo dell’equivalenza totale tra i segni, che alla trasparenza effettiva del messaggio.
Dag manipola il legno, materiale che recupera dagli scarti di falegnameria, ancora caldo di un residuo organico, dipinto e combinato con tele e stoffe, i jeans,desunti dalla quotidianità,operando una fusione di vissuto e concezione idealistica del gesto artistico.
Tuttavia, permane una componente iconoclasta che azzera le immagini ridondanti scaturite dagli eccessi mediali e guarda in direzione del Situazionismo di Pinot Gallizio e alla sua pittura industriale che elaborava un linguaggio informale dai medesimi accenti sovversivi, anche se in quel caso le tele lunghissime venivano dipinte e tagliate secondo un procedimento quantitativo che mirava a smitizzare il carattere commerciale dell’opera d’arte.
Dag, a modo suo, è vicino a tale proposizione , pur cercando ambivalenza totemica che ripristini il substrato simbolico dell’opera nel tentativo di restituzione dell’armonia perduta.
CARMINE SIMEONE
Giornalista d’Arte per il "Corriere del Mezzogiorno" ; "Giornale di Caserta" e "Flash Art".